Da qualche anno ormai il sito TripAdvisor è nel mirino delle varie giurisdizioni europee, tra cui Gran Bretagna e Germania. Le accuse sono sempre le stesse: recensioni diffamatorie. Quello che molti sostengono, infatti, è che molte recensioni, non tutte si badi bene, siano create ad arte per promuovere o peggio per screditare alcune strutture.
Della questione si sono occupate, tre le altre, l’ASA (Advertising Standards Authority) e la Stiftung Warentest che grazie ai loro nomi altisonanti hanno potuto dichiarare che non c’è possibilità di verificare la veridicità delle recensioni: chiunque può registrarsi e scrivere ciò che vuole, in pratica.
Ma il punto non è tanto questo, anche se chi ha azionato cause milionarie nei confronti di TripAdvisor lo vorrebbe, il punto è che il sito aveva come slogan “honest, real and trusted” che oggi è diventato il più ‘sobrio’ e più generico: “Il portale di viaggi più grande del mondo”. Insomma ha smesso di promettere cose che evidentemente non poteva controllare.
Negli Stati Uniti, dove fanno le cose sempre sul serio, della questione si è recentemente occupata la Corte del Tennessee-Knoxville con la sentenza 22.08.2012. Un albergo del Tennessee, il Grand Resort Hotel & Convention era stato inserito, grazie alle molte recensioni, nella classifica degli hotel “più sporchi d’America”.
Apriti cielo! Anzi, apriti Tribunale! L’amministrazione dell’albergo ha pensato bene di citare ‘Trip’ in giudizio per diffamazione, chiedendo anche 5 milioni di dollari di risarcimento (ma forse era il conto dell’impresa di pulizie n.d.r.). La Corte Americana ha preliminarmente affermato che per definire un’affermazione come diffamatoria, occorre che la stessa possa essere percepita in quanto tale (“The first question for a court to address, regarding defamation, is whether the statement is capable of being understood as defamatory”) e che è necessario capire se una persona di media avvedutezza (da noi si direbbe che ha le caratteristiche del buon padre di famiglia, o più semplicemente dotata di buon senso) può distinguere se si tratta solo di opinioni dell’autore.
Insomma dice il giudice “A reasonable person would not confuse a ranking system, which uses consumer reviews as its litmus, for an objective assertion of fact; the reasonable person, in other words, knows the difference between a statement that is “inherently subjective” and one that is “objectively verifiable.”
Negli USA, si sa, c’è di mezzo anche il Primo Emendamento che ha un raggio di protezione delle opinioni davvero molto ampio, infatti, osserva la Corte americana che “The First Amendment of the United States Constitution and Article I, Section 19 of the Tennessee Constitution protect “statement[s] of pure opinion, hyperbole, or rhetorical exaggeration”.
Come a dire che gli Americani sanno distinguere da soli se un’affermazione è puramente diffamatoria o è solo frutto di un’opinione personale, che per quanto sia contestabile, non è condannabile.
C’è da considerare, inoltre, che in America chi esprime il vero o opinioni personali, e non fatti, non può essere condannato per diffamazione. In Italia la libertà di espressione è garantita dall’art 21 della Costituzione, che viene delimitato, arginato, dall’art. 595 del Codice Penale.
Vale la pena di osservare che il diritto italiano non parte dal presupposto che ci siano di mezzo le opinioni, o che quanto affermato sia vero (ammenoché non si parli di diritto di cronaca ove il requisito è essenziale perché c’è la possibilità della scriminante), ma considera la lesione di un bene superiore: l’onore.
Da questo deriva il fatto che l’offesa a questo diritto non è mai lecita, ancorché si esprimano opinioni personali. Il discorso è lungo e di non facile e pronta soluzione: non a caso la Cassazione ha tentato a più riprese di delinearne e dipanarne tutte le particolarità.
Tornando al caso: negli ultimi tempi si sono succedute molteplici sentenze nel mondo che confermano la mancanza di comprovata rilevanza oggettiva delle recensioni espresse dai viaggiatori/recensori, ma siamo curiosi di vedere come verrà risolto in Italia questo problema.
L’orientamento internazionale in merito alla fiorente moda della recensione (che ci garantisce la partecipazione alla vita social) deve suggerire almeno due cose: se da un lato albergatori e ristoratori debbono, obtorto collo, accogliere le critiche, confidando più nell’intelligenza di chi le legge rispetto a chi le scrive, dall’altro lato queste sentenze ci suggeriscono che – forse – quando andiamo per locali dovremmo prenderci un po’ meno sul serio, evitando di sentirci tutti dei Gordon Ramsay o dei Luigi Veronelli (per citarne due) e provare ad esprimere giudizi obiettivi secondo le nostre reali competenze.
Così, quando scegliamo sulla base di un giudizio altrui, dovremmo concederci il beneficio del dubbio. Sì, dovremmo concedere a noi stessi il dubbio che, magari, quel locale o quel albergo, a noi, possa piacere. Invece.
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